Novecento in rete

Quando la storia si fa interessante

La negazione dell’umano

a cura di Salvatore Di Pasqua

Sigmund Freud - Fonte: Wikipedia


Il Novecento ha esaltato e insieme negato l’Humanität, ovvero ciò che per tradizione accostiamo alle più alte e nobili manifestazioni della vicenda umana; quei progressi sentiti innanzitutto come forme di incivilimento, di dominio sullo «spirto guerrier» che tormenta (e schernisce) ciascuno di noi. Vi è un livello profondo di umanità che dobbiamo provare ad estendere e rafforzare, se si vuole che l’evoluzione dell’uomo non si compia nel segno della morte e della distruttività. Secondo il Freud della lettera a Einstein (1932), lo sforzo che dovrebbe accomunare gli uomini di buona volontà è quello di compiere un passo improbabile ma decisivo per eliminare del tutto la guerra dall’orizzonte umano, una guerra che «a causa del perfezionamento dei mezzi di distruzione» diventa sempre più “efficace”, capace di portare allo «sterminio di uno o forse di entrambi i contendenti». Per Freud questo passo decisivo non sta nel tentativo – inutile – di «abolire completamente l’aggressività umana», ma nel «cercare di deviarla al punto che non debba trovare espressione nella guerra». Occorre dunque ricorrere all’antagonista della pulsione distruttiva, a quella pulsione che fa sorgere e rafforza «legami emotivi tra gli uomini» facendoci sentire “simili”, uomini tra uomini (leggi l’intera lettera sul sito dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici).


Vi è chi ha intravisto nell’evoluzione della civiltà il tabù capace di ergersi contro il perdurare di un istinto primitivo e cruento. Se gli uomini sono “tristi” per natura bisogna fare in modo che l’humanitas prevalga sulla feritas, ponendo degli argini ai comportamenti considerati devianti (le costrizioni sociali trovano in una tale necessità la loro ultima ragion d’essere), e tuttavia sacrificando anche una componente umana alla feritas. L’immagine del Centauro (metà uomo e metà bestia) serve a Machiavelli proprio a esemplificare (giustificandola) questa idea di una consapevole rinuncia: «Dovete, adunque, sapere come sono dua generazioni di combattere: l’uno con le leggi, l’altro con la forza: quel primo è proprio dello uomo, quel secondo è delle bestie: ma perché el primo molte volte non basta, conviene ricorrere al secondo».
Le guerre, anche quelle “preventive”, hanno trovato spesso in simili argomentazioni la bandiera attorno a cui chiamare all’appello gli uomini (e le donne) di “buona volontà”, per difendere appunto i valori della civiltà contro la barbarie.
In realtà questo schema, che distingue tra “uomini e no”, apre la strada a derive in più sensi pericolose. Rousseau ci ha ricordato nell’Emilio che le ragioni dell’uomo (inteso come essere naturale) possono entrare in conflitto con quelle del cittadino (il cui valore sta innanzitutto nel rapporto con l’intero: il corpo sociale) e che le leggi, le istituzioni, la patria possono diventare soggezione, alimentare il pregiudizio, abituarci a comportamenti servili. In altre parole la società può non formare un uomo libero.


Lo stesso Freud a ben vedere ha della civiltà un’idea più articolata: se essa rappresenta una tappa fondamentale dell’umanità è anche l’origine di un malessere profondo (un disagio) che segna irrimediabilmente la condizione umana.

Copertina di "La banalità del male" - Fonte: Google


Nell’ormai classico Anatomia della distruttività umana (1973), Erich Fromm si interroga sulle ragioni che rendono l’uomo civilizzato più violento rispetto alle altre specie viventi. Allo studioso la moderna metropoli appare uno zoo che assimila gli uomini alla condizione degli animali che vivono in cattività; ciò comporta un aumento drammatico dell’aggressività e finisce per distruggere tutti i vincoli sociali tradizionali. La società tecnologicamente avanzata è un pulviscolo disorganizzato di individui che non hanno alcun punto di riferimento per potersi riconoscere (si parla a proposito di anomia).
La natura della moderna distruttività va ricondotta dunque allo sviluppo stesso di una società che provoca una vera e propria patologia della normalità. In ultima analisi è l’umanità a rendere l’uomo così inumano. Noia, indifferenza, nausea, desiderio di astrazione e di fuga alimentano un vuoto in cui fermentano azioni inutilmente crudeli (delitti senza scopo, puramente dimostrativi, come quello di Raskolnikov in Delitto e castigo di Dostoevskij – vai alle pagine del libro presenti nella nostra antologia – o quello di Meursault nello Straniero di Camus); oppure si insinuano ideologie totalitarie che liberano l’uomo da qualsiasi peso, innanzitutto quello della propria responsabilità.
L’immagine che va associata al criminale nazista, ha ricordato Hannah Arendt, non è quella del sadico che gode nel provocare il dolore altrui, ma quella, ben più difficile da introiettare, del fedele e scrupoloso funzionario che compie il suo dovere senza esitazione. Egli obbedisce comunque all’autorità e non si interroga sulle conseguenze delle proprie azioni. Nel suo grigio e mediocre universo quotidiano il solerte servitore dello Stato può mandare a morire migliaia di persone apponendo un timbro, compilando un elenco, organizzando il loro viaggio all’inferno «con grande zelo e cronometrica precisione». Tutto ciò senza provare alcun senso di rimorso e senza particolare accanimento nei confronti di quanti manda a morire: il male si manifesta in una banalità inquietante che dovrebbe indurre a riflettere (leggi alcune pagine del libro della Arendt).


La società in cui viviamo oggi ci trasforma in veri e propri mostri, e tutto questo senza che ce ne accorgiamo: ci svegliamo un mattino «da sogni tormentosi» e sentiamo che qualcosa si è rotto, ci ha mutati radicalmente e irrimediabilmente, come accade a Gregor Samsa, il protagonista della Metamorfosi di Kafka (vai alle pagine iniziali del racconto).
L’uomo tecnologico, così orgoglioso di essere entrato in una nuova era, appare in realtà autistico: incapace di comunicare, indifferente alla sofferenza dell’altro e al proprio destino.
La storia dell’uomo è da sempre anche storia di crudeltà e distruzione, di morte e sopraffazione. Lo sviluppo di ogni forma di civiltà è costellato di azioni non proprio edificanti: genocidi, deportazioni, persecuzioni, stragi, orrori e traumi di ogni tipo rendono il cammino dell’uomo piuttosto simile a un incubo, da cui si vorrebbe fuggire.
Eppure c’è qualcosa di più terribile, che dovrebbe preoccuparci tutti.
La distruttività che si accompagna al divenire storico ha trovato nella tecnologia forme inusitate e amplificate di annientamento che incidono non soltanto drammaticamente sul numero dei morti (e sul coinvolgimento di donne, bambini, vecchi tra le vittime), ma soprattutto sul modo di sentire queste morti. Uccidere l’altro senza avvertirne il dolore con un semplice input il cui effetto è distante nello spazio e nel tempo (si pensi alle radiazioni atomiche) porta ad avere della realtà una immagine distorta, virtuale (ma quei morti, quei corpi amputati, dilaniati, straziati, sono poi veri?).


L’incedere del Ventesimo secolo rende difficile immaginare situazioni come quelle che ancora si verificano nella prima guerra mondiale (che già segna un punto di discrimine nella storia della proliferazione dell’orrore). Erich Maria Remarque, in Niente di nuovo sul fronte occidentale, descrive la reazione emotiva del protagonista a stretto contatto, in una buca scavata da un colpo di granata, con un soldato francese; nel silenzio della notte egli sente, mentre «i minuti stillano ad uno ad uno», il rantolo dell’uomo che ha ferito mortalmente. Ma proprio per questo (quel corpo è irrimediabilmente vicino) quando fa giorno può scorgere nel “nemico” i tratti comuni e provare rimorso: «Soltanto ora vedo che sei un uomo come me» (leggi le pagine del libro).

La squadra dell'Enola Gay, l'aereo che lanciò la bomba "Little Boy" su Hiroshima. L'aereo fu chiamato così in onore della madre del pilota Paul Tibbets. - Fonte: Wikipedia


Nella seconda guerra mondiale gli eccidi, i lager, le rappresaglie per essere perpetrati hanno dovuto trovare una giustificazione di carattere ideologico: l’altro è il nemico a cui è stato tolto ogni residuo di umanità. Coloro che sono rinchiusi nei campi di concentramento non sono simili, ma viventi che appartengono ad un’altra specie: sono «numeri incastonati in un triangolo»; sono Untermenschen e proprio perché tali essi (ebrei, slavi, comunisti, omosessuali, zingari…) possono essere brutalizzati e uccisi.
Anche i piloti che hanno lanciato le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, accolti dalla folla festosa dei connazionali, non hanno avvertito le conseguenze del loro gesto (almeno non tutti). Bisogna interrogarsi su questi tipi di reazione, individuali e collettive; non si può relegare la storia a semplice enumerazione di fatti. Si tratta invece di riflettere sulle tante omissioni che ancora ci impediscono di comprendere (guarda nell’archivio di “La storia siamo noi” la puntata dedicata al ricordo delle vittime di Hiroshima).


Konrad Lorenz per spiegare il processo che porta a non considerare “umani” i nemici ha richiamato il concetto di pseudospeciazione: «Ogni gruppo culturale rigorosamente delimitato tende a considerarsi come una razza particolare, a ritenere i suoi membri gli unici uomini pienamente degni di questo nome». Questa delimitazione di un gruppo rispetto a un altro, «così simile alla formazione delle specie», nasconde «i più gravi pericoli».
Il rischio del non-umano, del comportamento che incrudelisce sull’altro senza provare alcuna forma di pietà, è un’insidia, ammonisce Lorenz, di carattere culturale e non naturale. E’ dunque su questo piano che bisogna operare se si vuole evitare il ripetersi dell’errore. L’unico modo per sfuggire alla brutalità è recuperare l’altro nello stesso orizzonte di umanità, nell’Humanität. Nel passo decisivo che ha spinto l’uomo a lasciare la certezza dell’istinto per affidarsi al dubbio dell’intelligenza c’è spazio per il “bene” e per il “male”, per slanci solidali e per sentimenti biechi: il destino dell’uomo dipende in gran parte dalla capacità che avremo di valorizzare il nostro patrimonio umano.
Werner Herzog ha realizzato nel 1992 uno straordinario documentario sulla guerra del Golfo (Apocalisse nel deserto). In realtà le rare voci fuori campo non aiutano a precisare il tempo e il luogo dello spazio scenico. Nella vastità del silenzio, che domina sopra ogni altro aspetto, il riferimento all’Iraq è sfumato, mai esplicitato: gli allucinati incendi dei pozzi petroliferi, le sembianze che improvvisamente – come fantasmi – interrompono l’uniformità del deserto, i segni della distruzione che la macchina da presa impietosamente riprende potrebbero riferirsi a qualsiasi devastazione. Le note dissonanti della musica classica (Schubert, Verdi, Mahler, Grieg…) rendono ancora più spettrale il paesaggio: fanno percepire la presenza dell’uomo solo nell’assenza, nelle tracce che ne sono rimaste. Quella di Herzog, più che un reportage sulle conseguenze della guerra, è una lezione sull’oscurità (Lektionen in Finsternis è il titolo originale del film), sul seme di morte che alberga nell’uomo (guarda alcune sequenze del film).


Ma l’oscurità è anche, e prima di tutto, una rimozione, il voler tenere lontano ad ogni costo qualcosa che infastidisce.
Nella società odierna si ha l’impressione che per uccidere non occorra neanche più un velo ideologico: gli altri muoiono e non ci sfiorano nemmeno; la nostra coscienza di uomini civilizzati è diventata di fatto più labile. Bombe al napalm, al fosforo bianco, proiettili all’uranio impoverito, ciò che di tremendo è avvenuto nelle carceri di Guantanamo (e che è trapelato appena) sembrano non intaccare la sfera della vita quotidiana, i nostri interessi più gretti. Oramai non abbiamo bisogno di celebrare eroi, non servono ideologie radicali; è sufficiente qualche spiegazione sommaria tra un pasto e l’altro. L’epica degli eroi che hanno sconfitto i nemici brutali è stata soppiantata dall’antieroica necessità di veder confermato il proprio stile di vita; l’uomo (quello “comune” o “qualunque”, pragmaticamente ancorato ai bisogni più immediati) è diventato refrattario a qualsiasi dubbio: le stragi non vanno più giustificate, devono semplicemente rimanere nascoste.

(Un’inchiesta di Sigfrido Ranucci per Rainews24 ha denunciato l’uso, da parte dell’esercito degli Stati Uniti, di fosforo bianco a Fallujah nel novembre 2004. Puoi guardarla a questo link, dobbiamo però avvertirti che il filmato, consigliato agli adulti, contiene immagini molto crude: Fallujah, novembre 2004.)

 


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